fonte: https://www.arbiter.it/articolo/nessuno-e-piu-italiano-di-noi/
Un padre e un figlio, fieri del loro cognome al quale rendono onore ogni giorno: perché Claudio e Luigi Italiano cuciono i loro abiti a Palermo. E dalla propria sartoria guardano a Milano e al mondo.
Poche terre come la Sicilia sono state stereotipate sino al paradosso. Così, come una fastidiosa fodera che continua a scucirsi per quanto la rammendiamo, della mitica Trinacria si ha spesso un’immagine ritorta su se stessa, che l’isola fatica a scrollarsi di dosso. Icone del passato che come pizzi neri nascondono la vera anima di una terra mai quieta, mai doma e soprattutto mai del tutto dominata. Un’isola su cui chiunque sia approdato ha costruito cultura e bellezza. Ne è simbolo Palermo, terra di Fenici, Greci, Romani e poi Bizantini, Arabi, Normanni, sino agli Svevi con il grande imperatore, illuminista ante litteram, Federico II; e poi ancora Angioini, Aragonesi, Borboni e persino i Savoia. Questo, però, vuole essere uno sguardo contemporaneo sulla Sicilia di adesso, raccontato anche dai tagli e dal rigore dinamico della sua sartoria, in particolar modo quella palermitana. Un modello ben lontano dalle caricature macchiettistiche con carretti siciliani accompagnati da immancabili barbieri in bretelle e coppola calata sul volto, diffusa da D&G o peggio dal cinema di maniera d’oltreoceano. Figurine banalizzanti di siciliani ingessati da rigidissimi gessati che è l’esatto controcampo stantio di quel che è oggi la sartoria palermitana. Uno stile che nel fare abiti, pur essendo immerso nel Mare nostrum, strizza l’occhio più alla scuola milanese che a quella forse «fru fru» e talvolta leziosa di matrice partenopea. E nel propulsivo contesto palermitano, insieme ai ben noti sarti Carmelo e Mauro Crimi o al giovane Guido Davì, un’altra fulgida rappresentanza ne è senza dubbio la Sartoria Italiano, condotta oggi dal 35enne Claudio che va ereditando le forbici a colpi di fiducia dal padre: il maestro Luigi Italiano, classe 1940. L’atelier degli Italiano è una di quelle belle storie in cui si consolida il passaggio generazionale e altruista del saper fare in quello della volontà di tramandare, rilanciare e far resistere, contro le intemperie del cattivo gusto, un gusto tutto italiano del saper vestire un abito.